L’inganno della comfort zone

Gliel’ho detto.
Ero diventata una cloaca intasata di liquami, mi sentivo sporca.
Gliel’ho detto.
Ero convita che, e invece: “ognuno ha i suoi tempi”, ha risposto.
Poi “mi spiace del peso che hai portato tutto questo tempo”.

Qualcuno direbbe: brava, sei uscita dalla tua zona comfort.
Ma sto cazzo.
Non credo nel potere risolutivo e nei magici benefici decantati dal famoso “uscire dalla zona comfort”.
O meglio, ci vuole lo spiegone.

La storia della zona comfort è uno dei concetti più sopravvalutati, imprudenti e avventati degli ultimi anni.
Come se non fosse tutto già incredibilmente faticoso e difficile: no, bisogna farci anche questa violenza, uscire dalla zona comfort, quando quell’uscire da lì per noi significa ansia (di quella vera, che la carne ti pulsa e sudi dalle palpebre), paura (respiro corto, presente?), disagio (eritrofobia, la mia specialità).
Non ho mai creduto alle terapie d’urto di questo tipo, o meglio: a me non sono mai servite a un cazzo se non a farmi aumentare inquietudini e timori: non è che dici “ah ma dopo sono riuscita a fare questa cosa”, macché.
Ne uscivo più colpita e bucata, uno scolapasta. Distrutta.

Quando dicono “devi uscire dalla tua comfort zone!”, come se fosse un incoraggiamento, come se fosse la soluzione a tutte le tue problematiche, come fosse la toppa definitiva ai tuoi bug emotivi, ecco, quando lo dicono non ne conoscono l’impatto violento psicologico che può avere su chi, da quella maledetta zona, non riesce a uscire.
Facciamo già fatica ad affrontare la quotidianità fatta di persone, di comunicazione, di senso di inadeguatezza costante (io non cammino mai da sola se non ho delle cuffiette nelle orecchie: il volume, il metal, devono farmi dimenticare il mio corpo che viene visto – per dirne una): dirci qualcosa che non riusciamo a sostenere ci fa sentire ancora più insolventi, fallimentari, inidonei al mondo.
Ci fa sentire in colpa.
Queste frasette a effetto senza contesto rubate da qualche rivista da ombrellone ci demoralizzano.

Le nostre emozioni all’interno di una situazione sono delle informazioni valide, utili: molto più delle convinzioni di ciò che si dovrebbe fare: se non sto bene, conta. Se non riesco a fare qualcosa: conta.
Un’emozione è un’informazione che ci spinge all’azione: sta a noi capire come funzioniamo e come possiamo agire.
Non lo sancisce una frasetta del cazzo motivazionale decontestualizzata.
L’emozione ci indica come il nostro sistema valuta una situazione e si prepara ad agire.
Come dico spesso, bisogna fare quello che si riesce molto prima di quello che è “giusto”.
E poi, ci vuole tempo: il cambiamento è un processo non un’illuminazione. Funziona che la sofferenza nell’affrontare qualcosa diventerà “solo” fatica, dopo la fatica arriverà l’accettazione di quel disagio e infine il cambiamento.
Ma ci vuole tempo.
Altro che “dai, fallo! Esci dalla zona comfort!”.

Tra l’altro, uscire dalla comfort zone significa affrontare la fase successiva che è identificata come la “panic zone” e a cui ops, nessuno ci pensa mai, ma ops per noi è un incubo:
è la condizione soffocante, opprimente in cui ci si sente costretti, obbligati a cambiare il nostro modo di affrontare le cose: è una zona caratterizzata da frustrazione, tensione, ansia, inadeguatezza; tutte le nostre sicurezze vengono messe in pericolo e talvolta distrutte. Presente come? Ah no, è vero, non hai presente come.

Il passaggio dalla comfort zone verso qualcosa di sconosciuto, una terra incognita di gestione delle situazioni che ci richiede l’utilizzo di strumenti che no, non abbiamo, è un’impresa che per noi ha una difficoltà enorme, ci costa una fatica – in termini di energie – più grande di quanto possiamo sostenere.
Per questo è fondamentale che venga concessa la zona intermedia, la fase chiamata “dis-comfort zone”: una zona neutra poco fuori dalla comfort zone, raggiungibile a piccoli passi, dove si mantiene un collegamento vivo (pratico e mentale) tra le proprie abitudini di gestione emozionale (la mia casa sicura è ancora in vista) e l’apprendimento di un nuovo “panorama operativo”, il conseguente adattamento, l’assimilazione e infine il cambiamento.

Quindi.
Se io non sono in grado di fare qualcosa (che ne so, prendo esempi stupidi a caso: aprire un regalo davanti ad altre persone, entrare in una stanza piena di gente, provare le scarpe in un negozio o cose piccole come chiedere di non mettere la schiuma nel cappuccino), inutile mi venga detto “no dai, provaci, falla, esci dalla tua comfort zone!” perché questo peso di responsabilità, quest’ansia da prestazione, quest’angoscia da esame mi getterà completamente nel panico e mi farà sentire una fallita, inadeguata al mondo (senza contare l’ansia, il sudore, e tutto l’allegro pot pourri).

Esistono le trattative, le negoziazioni, i compromessi: la dis-comfort zone, appunto.
“ok, le scarpe proviamole in un angolo in modo che non ci veda nessuno”




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